Il punto sulle cure farmacologiche per il Coronavirus

Con questa conversazione con il prof. Leonardo Punzi, facciamo il punto sulle cure farmacologiche per il Coronavirus.

Il prof. Leonardo Punzi, ordinario di reumatologia dell’Università di Padova è l’unico medico italiano che fa parte della task force europea (EULAR) per l’elaborazione delle linee guida per la diagnosi e la terapia della gotta.
La regione l’ha nominato referente tecnico-scientifico della rete di reumatologia del veneto e collabora con l’Ulss 3 Serenissima, all’Ospedale civile di Venezia.

COVID-19 si cura o si evita con il vaccino?  C’è un’alternativa oppure si tratta di possibili soluzioni determinate dai risultati delle ricerche farmacologiche ?
 
Il termine vaccino deriva dal termine vaiolo delle vacche, che permise nel 1796 al medico inglese Edward Jenner, di intuire una strategia per stimolare la formazione di anticorpi anti-vaiolo. Egli osservò che, a differenza del vaiolo dell’uomo, estremamente letale, il vaiolo delle vacche provocava negli uomini solo un’eruzione cutanea con pustole o vescicole. Egli iniettò il liquido contenuto in queste pustole in un ragazzo allo scopo di renderlo resistente al vaiolo “grave”. Cosa che avvenne. La logica era che quel virus “benigno” o sue parti (più tardi identificate come antigeni) contenute nel liquido delle pustole, quando iniettati, non fossero in grado di provocare una malattia vera e propria, ma sufficienti a stimolare l’organismo a riconoscere e bloccare il virus variola, responsabile del vaiolo. Successivamente fu dimostrato che ciò avveniva mediante la formazione di anticorpi specifici e che si trattava di una vera e propria vaccinazione, basata sulla memoria immunitaria. Anche se Jenner non conosceva bene i meccanismi della risposta immunitaria come sono stati poi definiti, ha aperto la strada per i vaccini come prevenzione delle malattie infettive, che ha costituito un progresso enorme nella lotta alle malattie più gravi dell’umanità.

In alcuni casi il vaccino può essere utilizzato anche ad esposizione avvenuta, perché permette di evitare le complicazioni più gravi stimolando la risposta immunitaria che elimini il virus prima che la malattia si manifesti. Esempi sono il vaccino della rabbia che può essere somministrato dopo che l’individuo è stato morso da un animale rabbico, il vaccino contro il morbillo e quello contro la varicella.

I vaccini contro le infezioni possono poi servire a prevenire altre malattie, quali ad esempio, il cancro. Esempi sono il vaccino contro il papilloma virus (HPV) che previene l’insorgenza delle neoplasie dell’apparato genitale e il vaccino per l’epatite B che è in grado di prevenire alcuni tipi di neoplasie del fegato.

I vaccini sono attualmente sperimentati anche per curare. Gli studi più avanzati riguardano il cancro, con risultati preliminari promettenti ma ottenuti con tecniche complesse e molto costose.  
 
In queste settimane istituti di ricerca, società farmaceutiche, centri ospedalieri di tutto il mondo lavorano per affrontare questo virus.  Quali previsioni sono possibili nell’ambito della cura ?

In questo contesto va fatta una considerazione, per certi versi amara dal punto di vista etico, che induce all’ottimismo. Ovvero che questo virus ha colpito i Paesi più ricchi del mondo, ovvero quelli che sono più in grado di acquistare i vaccini e/o i farmaci, con conseguenti enormi investimenti per la ricerca e grande competizione da parte delle case farmaceutiche. Negli USA vi sono già in fase di avanzata sperimentazione sull’uomo almeno 5 vaccini, con caratteristiche diverse fra di loro. I primi risultati sono attesi per giugno e penso che, se incoraggianti, il vaccino sarà disponibile su larga scala per la fine dell’anno e si farà forse assieme a quello anti-influenzale. Ma purtroppo, etica per etica, si corre un rischio. Che il Paese che l’ha prodotto per primo se lo riserverà innanzitutto per la sua popolazione. Per cui trovo che andrebbero incoraggiate ed adeguatamente finanziate le ricerche in corso nel nostro Paese. Ma, ahimè se ne parla poco…
 
Tra i farmaci che pare stiano dando dei buoni risultati si fa un gran parlare degli anti-artrite. Come mai ?

Per i malati affetti da artrite e per gli stessi reumatologi è una bella notizia, perché si è capito finalmente quanto complessa sia la patogenesi delle artriti ed intensa l’infiammazione che si sviluppa in questi pazienti a causa della perturbazione del sistema immunitario. Le sostanze maggiormente responsabili sono le citochine, sostanze proteiche rilasciate dalle cellule in seguito ad uno stimolo. Le cellule immunitarie (monociti, macrofagi, linfociti) producono le citochine più coinvolte nell’infiammazione, chiamate citochine proinfiammatorie di cui le principali sono il tumor necrosis factor (TNF) e le interleuchine (IL) IL1, IL6 e IL8.
Il grande intuito dei ricercatori che si occupavano di infiammazione dell’artrite è stato quello di trovare il modo di bloccare alcune di queste sostanze mediante anticorpi (monoclonali) ottenuti in laboratorio con tecniche di biologia molecolare, da cui la loro denominazione di farmaci biotecnologici o farmaci biologici. Farmaci che hanno rivoluzionato la terapia delle artriti e che usiamo ormai da più di 10 anni, con successo. Il suffisso mab che spesso contraddistingue i nomi di questi farmaci significa appunto anticorpi monoclonali, in inglese monoclonal (m) antibodies (ab).
Gli anti-IL6 (Tociluzumab e Sarilumab) sono quelli che stanno dando i risultati più promettenti nei pazienti affetti da COVID-19. Ma se ne stanno sperimentando anche altri, fra cui un anti-IL1, l’anakinra, ed anche farmaci che bloccano il segnale intracellulare che segue alla stimolazione citochinica.   Il COVID-19 provoca all’incirca lo stesso tipo di reazione infiammatoria che si trova nel liquido articolare delle artriti, ma a livello degli alveoli polmonari, portando ad una liberazione di citochine pro-infiammatorie (viene chiamata tempesta citochinica), in particolare l’IL6. Queste citochine creano un varco fra le cellule endoteliali, che si trovano nella parete dei vasi sanguigni che irrorano gli alveoli e lasciano passare numerose cellule del sistema immunitario che vanno ad amplificare l’infiammazione a livello polmonare, distruggono le cellule epiteliali del polmone e provocano la formazione di liquido. Tutto ciò rende difficili gli scambi gassosi e la respirazione del paziente, che quindi necessita di supporto meccanico, mediante ventilatori.
 
È consentito usare un farmaco indicato per una specifica patologia, come l’artrite, anche per un altro problema come la broncopolmonite ?

Non credo che questi farmaci siano indicati per le broncopolmoniti di natura infettiva, tant’è che nei pazienti con artrite si sospende il farmaco in caso di infezioni rilevanti, fra cui le broncopolmoniti. In effetti il loro uso nella malattia da COVID-19 non ha un intento anti-virale, ma anti-infiammatorio, da utilizzare solo quando si sospetta che vi sia una polmonite, anche in fase precoce.
 
Sono farmaci somministrabili soltanto in ospedale oppure possono essere assunti anche a casa su controllo medico ?

La maggior parte di questi farmaci biologici sono autosomministrati per via sottocutanea dal paziente stesso al proprio domicilio oppure, per i pochi che hanno problemi per farlo, si fa ricorso al medico curante. All’inizio del trattamento insegniamo al paziente cosa effettuare o si incarica il personale infermieristico. Comunque, vi sono altri farmaci che possono essere assunti per via orale, come ad esempio l’antimalarico idrossiclorochina. Da ciò ne deriva che è assolutamente possibile la somministrazione a domicilio, ovviamente sotto controllo medico. Il Veneto è all’avanguardia anche in questo tipo di approccio, perché ha ottenuto dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) l’autorizzazione a questo tipo di approccio in fase precoce, volto anche ad evitare il ricorso all’ospedalizzazione.

Dal suo osservatorio di specialista che ha rapporti con molti colleghi stranieri, quali sono gli approcci che altri Paesi stanno dando alla ricerca ed impiego di farmaci contro il Coronavirus?

Ho avuto in questi giorni frequenti contatti con i miei amici e colleghi stranieri, volti primariamente a rassicurarci sul nostro stato di salute. Durante questi dialoghi emerge una sorta di stupita impotenza per quanto sta accadendo anche da loro, con una violenza inattesa. Anche in situazioni sanitarie molto avanzate, quali ad esempio quelle di Parigi e di Strasburgo, che sono fra le aree più colpite della Francia. Devo dire che sono loro che aspettano da noi indicazioni rilevanti sui farmaci che si stiamo sperimentando, visto che abbiamo iniziato prima.
Posso aggiungere, collegandomi a quanto detto sopra a proposito dei vaccini che, come ha fatto Trump negli USA, anche in Francia, in Germania ed in Gran Bretagna, le autorità hanno convocato i ricercatori e le aziende con competenze in questo tipo di ricerche, per sollecitarli ad accelerare gli studi con importanti finanziamenti. Non ne sono certo, ma ho l’impressione che in Italia, a parte i ringraziamenti e gli elogi, non mi sembra che vi siano investimenti rilevanti in quest’ambito, che sarebbe uno dei modi più sicuri per fondare la ripartenza su basi solide. Che non potrà avvenire mai compiutamente con il virus in circolazione.

Va comunque sottolineato che il modello assistenziale veneto e la sua modalità di approccio al COVID-19 suscitano molti consensi anche all’estero, come spesso riportato da giornali stranieri di grande autorevolezza, come il New York Times e Le Monde.
 
(A cura del Polo Culturale e Museale della Scuola Grande di San Marco di Venezia)